La pacificazione della mente, che si raggiunge quando questa si assorbe completamente e senza sforzo nella stabilità della meditazione, è uno stato analogo alla pacificazione interiore.
Questa è il frutto di un lento, costante, progressivo allenamento alla quiete interiore, che passa attraverso un continuo esercizio di cura e attenzione interiori.
Si tratta in primo luogo di allenarsi a vedere, a osservare senza esercitare alcuna forma di giudizio, quanto si muove dentro di noi.
Sto parlando di monologhi interiori, ovvero di descrizioni continue e incessanti che la nostra mente è abituata a produrre in un proliferare di didascalie, commenti, giudizi in cui siamo costantemente immersi e che finiscono con l’assorbire una grande quantità di energia vitale.
Attraverso questa modalità, descrittiva e narrativa, siamo cresciuti e siamo stati allevati in un contesto sociale fatto di regole (esplicite e non) convinzioni e convenzioni che ci hanno fornito il “lascia passare” necessario per nutrire il nostro senso di appartenenza e con lui uno spirito di sopravvivenza, nel branco, al riparo dai lupi dell’isolamento sociale e dell’esclusione.
Il fatto è, che a un certo punto realizziamo che tutta questa “descrizione del mondo” si compone di automatismi, regole, input e output che ci allontanano dal contattare la nostra intima natura e con questa il senso profondo delle cose, quello dell’essere vivi, dell’esserci qua, adesso, in contatto pieno con il senso di precarietà, finitezza, impermanenza che “l’esserci” pienamente si porta dietro.
Ho come l’impressione che l’intero impianto narrativo di descrizioni, didascalie e rimuginamenti vari, poggi su una bugia che è funzionale al tutto.
Non parlerei di vera propria bugia a dire il vero, quanto di una dimenticanza.
Tutto il vivere concitato e consumistico (in termini di beni, relazioni, sensazioni, pensieri ed emozioni) sembra aderire ad un unica esigenza che è quella di dimenticare che tutto è transitorio, compresa la nostra esistenza, che niente è permanente, compresi gli stati d’animo, e che è illusorio e anche poco sano, pensare di poter trattenere ciò che piace e debellare, allontanare, cacciar via quanto non ci piace.
Del resto, lo capiamo bene: già nel dire che c’è qualcosa che ci piace e qualcosa che non ci piace, stiamo operando distinzioni, separazioni, discriminazioni su eventi o situazioni che di per sé non conoscono separatezza ma solo una continuità nel loro manifestarsi avvicendandosi.
Da una parte quindi esiste un flusso (di eventi, emozioni, sensazioni che si manifestano) e dall’altra esiste la nostra mente che, nel suo discriminare, avvicinare ciò che ama e allontanare ciò che teme, interrompe continuamente questo ritmo, questo respiro vitale, cristallizzando l’esperienza in “mi pace” e “non mi piace”.
La meditazione interviene da questo punto di vista, tornando a fluidificare quanto la nostra mente ha bloccato e congelato e lo fa aiutandoci a sospendere il giudizio, a interrompere il monologo interiore, introducendo una pausa che apre le porte a un vuoto.
Un vuoto fertile, un terreno vergine nel quale avere cura di seminare, accudire e far crescere i “semi buoni”, imparando a riconoscere quando tra questi si insinuano i fili d’erba del monologo interiore che costruisce cattedrali di giudizio nel deserto dell’avversione.
La meditazione è seminagione di sacro nel quotidiano, è tornare a parlare la lingua del Mondo offrendosi a esso, allenandosi ad accoglierne le manifestazioni sia nei giorni di sole che in quello di pioggia.
Disporsi a meditare in Natura, facilita questo processo di lento, graduale disgregarsi delle costruzioni mentali monolitiche, a vantaggio di una più flessibile e adattabile disposizione d’animo aperta e disponibile, genuinamente curiosa e naturalmente coinvolta nei “fatti del mondo” perché è del mondo la lingua che parla.
Silenziare la mente e predisporsi ad accogliere i racconti che porta con sé un albero nel suo muto, lento e costante manifestarsi ed essere in grado di mettere in atto strategie di adattamento alla vita stando nel Mondo, è una fonte di ispirazione che può attivare in noi il prodigio dell’auto guarigione.
Un’auto guarigione che passa per il prendersi cura di sé, per l’accorgersi dei propri movimenti (di quelli evidenti come di quelli più sottili ma non meno efficaci) e finisce con l’insegnarci a dare un nome alle cose, compresi i mali della nostra anima che rimangono tali, fintanto che non siamo in grado di vederli.