Accipicchia se è stato difficile e ostico questo anno ma per dindirindina, io lo ringrazio.
Fino a poco, pochissimo tempo fa non mi sarei immaginata neanche lontanamente che avrei fatto tutta questa strada.
A chi mi chiedeva cosa sapessi fare, sorridevo sorniona e imbarazzata.
Già immaginare un domicilio era faticoso, quasi nauseante.
Ho preso in seria considerazione l’idea di abbandonare l’Elba ma poi lei, crudele come una sirena, ti richiama a sé con il fascino secolare dell’isola, perché in fin dei conti noi siamo isole, apparentate alla lontana, ma intimamente uniche e solitarie.
C’ero quasi, giuro: avevo anche ipotizzato nuovi percorsi al di qua del Tirreno ma poi non c’è stato niente da fare, il mio Ulisse viaggiatore ha fatto ritorno a Itaca.
Fondamentalmente perché ho capito che “casa” è il luogo in cui ti senti accolto, amato, circondato da ciò che per te più conta e da cosmopolita in miniatura quale io sono, essendo cresciuta in diversi luoghi italiani e non, alla fine io questa capacità di sentire che il mio cuore appartiene a molti luoghi, la sento viva dentro di me. Per questo motivo ho scelto radici flessibili e sinuose, in grado di adattarsi alle situazioni ma saldamente ancorate al principio di bellezza e libertà.
Confesso che mi sento un po’ una mangrovia perché ho scoperto di avere grandi radici a trampolo e aeree che si ramificano molto prima di raggiungere l’acqua: quasi non avessi fretta di ancorarle, consapevole che poi, anche una volta trovata l’acqua, posso continuare a viaggiare.
Si viaggia in molti modi, inutile negarlo e la mia natura gitana fa i conti con questo concetto di transitorietà, nel quale tutto scorre ma gli affetti restano, si consolidano, si trasformano nel tempo disegnando percorsi di senso (fosse anche per il tempo di un viaggetto condiviso: perché siamo le esperienze che facciamo e ognuna di esse ha un forte potere su di noi).
Così, in questo anno che, confesso, non è il primo di una serie ultimamente, saluto con un misto di stanchezza, gratitudine e “Santo Cielo, meno male che sei finito oh” mi sono appuntata che:
Non è mai troppo tardi per prenderti sul serio, iniziando a prenderti molto meno sul serio.
Lo so, ti sembrerà assurdo ma ho scoperto che quando molli la presa e inizi a riderti addosso, ti consenti il lusso di sbagliare e, udite udite di ammettere a te stessa che la perfezione non è roba di questo mondo e senz’altro non del tuo, succedono cose insperate. Intanto ridi molto di più (non ci credi? provaci). Si, le mascelle si rilassano, quella rigidità teutonica di fondo che ti accompagnava anche nottetempo, lascia il posto a un espressione più morbida e meno rigorosa (a volte Irene dice sia un’espressione poco intelligente ma si sa, le figlie adolescenti sanno essere impietose con le loro mamme).
Ma soprattutto inizia a farsi strada l’imprevisto, l’impensabile, l’incalcolabile, perché tu fai spazio a tutto questo e la smetti di essere il peggior ragioniere di te stessa (che poi coi numeri io…) e giochi col caso, con l’imprevisto, ti butti (a volte ti fai male, ovvio) ma dondoli e ti sposti, leggera e meravigliosamente in sintonia con quel che la vita è pronta a offrirti.
La vita è più generosa di quanto non pensi, specialmente quando smetti di giudicarla e misurarla.
Tutto è perfetto, così come accade e come ti si propone perché in tutto risiede un insegnamento e tutto porta con sé virtù che non credevi e non eri pronta ad attribuire, specialmente agli inciampi. La crisi si presenta a noi munita del kit di sopravvivenza, il punto è che tu quel kit non lo vedi perché sei incline a piangerti addosso, a vedere la sventura e l’inciampo ma la fotografia insegna: se sposti il fuoco l’inquadratura cambia totalmente e ricorda, non esistono fotografie belle o brutte ma esistono sguardi sulle cose che risultano più o meno interessanti (la tecnica è roba da gente brava, non discuto, è che la puoi insegnare/imparare mentre il tuo sguardo, il tuo sapore, il tuo valore aggiunto è solo tuo, non è replicabile, non c’è filtro che tenga!). Qualcosa tipo:
Quando affronti la tua paura ti accorgi che questa è culturalmente sopravvalutata: l’idea che te ne eri fatta è sempre più spaventosa della realtà.
L’uomo ha una straordinaria capacità di adattamento e sa trovare nuovi equilibri attingendo a risorse inimmaginabili anche nelle esperienze più difficili e qui penso anche al luminoso esempio di amici cari molto vicini, che senz’altro stanno attraversando avversità ben più sostanziose delle mie. Eppure li guardo e penso che la vita è un dono straordinario, che non smette di insegnarci a viverla e a trovare talenti incredibili sepolti sotto la coltre del quotidiano sopravvivere. Per cui, tanto per cominciare, un sentito ringraziamento alle persone che ogni giorno hanno da insegnarmi in fatto di coraggio e capacità di vedere oltre (belle che siete, non ve lo dico mai abbastanza)
Una rinuncia che sulle prime ti terrorizza può essere la più grande opportunità che riconosci a te stessa
Insomma, col tempo capisci che è un problema di termini: non è un chiudere una porta ma davvero, giuro, uno spalancare un portone e che le chiavi delle infinite porte che la vita sembra sbatterti in faccia le tiene (indovina?) il tuo cuore. Per cui finiscila con la sindrome del criceto che accumula e accumula cibo in bocca fino a esplodere (sembrerebbe). Rilassati, scegli, concediti il lusso di farlo: anche perché se non riconosci a te stessa questa opportunità, perché la vita dovrebbe farlo al tuo posto? Assumiti la responsabilità di esistere e pure quella di chiedere: sembra impossibile ma, giuro, puoi!
Questa è la penultima mattina di un anno difficile e denso, intenso e ostico, maldestro e generoso e, pensa che strano, mi sembra che lasci tracce di sé sul mio corpo (io me li sento addosso i segni e i solchi di queste scelte) ma anche nell’aria, quasi fosse un odore. Non so, tipo una traccia di bruciato e di legnoso, qualcosa di familiare ma anche di straordinariamente invitante e eccitante.
Mi volto: è mia madre che mi offre un caffè.