[Alle spore, meravigliose spore, che ognuna di noi ha saputo offrire per poi viaggiare]
Adesso piove forte e Selva Madre sembra tirare un respiro di sollievo.
Sono stati giorni densi e intensi qua in Academy e questa pioggia improvvisa sembra voler portare la benedizione finale, come un sigillo che si poggia su parole sacre, profonde, destinate a lasciare il segno in ognuna di noi.
Tutto è iniziato il venerdì, dopo un intero giorno di silenzio, un ritiro di mindfulness durato 8 ore qua in selva, nel quale ho preparato la mente e il cuore a quanto sarebbe voluto accadere: un modo per fare spazio e comprendere, mai abbastanza, di quanto ciarpame emotivo e cognitivo sono pieni i nostri giorni distratti.
La meditazione infondo, è un entrare in intimità con noi stessi e con quello che ci abita e spesso, nei primi giorni di un ritiro, si incontrano proprio le scorie emotive, il sommerso che riemerge sotto forma di fastidio, mal di testa, malessere vago cui non sappiamo dare un nome ma che nel respiro si scioglie, potendo finalmente emergere dal negazionismo silenzioso di un quotidiano distratto e disconnesso che nega a più non posso il dolore, aggrappandosi a visioni distorte di un reale ridotto a miraggio.
Al ritiro giornaliero hanno voluto partecipare anche due allieve del corso per condurre gruppi in natura che sarebbe iniziato l’indomani e ho accolto la notizia con scetticismo, pensando potesse essere davvero troppo unire le due esperienze, sapendo quanto impegnativo possa essere un intero giorno di pratica, specie per chi non ne abbia fatto esperienza prima.
Nonostante le remore, ho scelto di dare fiducia ale coraggiose allieve ma soprattutto alla saggezza del processo che sempre sa portarci in profondità e nel dolore mentale che il cambiamento solleva in noi, per poi invitarci a riemergerne più forti, autentici e integrati di prima.
E in effetti l’indomani i postumi non tardano a manifestarsi nelle due allieve che hanno scelto di fare una immersione integrale e senza riserve nei principi di mindwoodness che andremo ad approfondire nel lungo weekend, e capisco subito che mi trovo davanti persone che non si risparmiano, che sono capaci di entrare con generosa onestà dentro ai processi. Capisco cioè che le donne con cui lavorerò sono capaci di offrirsi al malessere che l’entrare in contatto con il senso di disconnessione di cui siamo tutti affetti, comporta… lo stesso di cui parla Joanna Macy nel suo straordinario contributo all’ecologia del profondo.
Lo stesso che dovremmo imparare ad attraversare noi se desideriamo accompagnare altri in natura con approccio ecoterapico.
Connessione, ecco la parola che cerco dentro di me venerdì mattina, mentre mi preparo ad accogliere il gruppo.
Come sempre non ho un programma, una scaletta definita, qualcosa a cui potermi aggrappare durante questi giorni che so per certo sapranno scavarci dentro come solo una connessione profonda con la natura sa fare, e so che il lavoro lo farà il bosco mentre a me sarà chiesto di poter abitare ciò che avverrà durante l’esperienza, con equanimità, senza attaccarmi ad idee preconcette e senza rifiutare alcunché anche quando, e sono certa avverrà, la temperatura emotiva del gruppo salirà.
Perché infondo è questo che siamo chiamati a imparare a fare nella vita, oltre che nella conduzione di un gruppo in natura: a sviluppare progressivamente sempre più equanimità nell’accogliere gli inciampi come i doni, così da poter viaggiare leggeri, liberi, aperti al mondo.
Mi apro con fiducia a quanto vorrà emergere quindi, radicandomi profondamente nella saggezza che il bosco mi ha mostrato da quando vivo a Selva Madre.
In questi otto mesi di quotidiano vivere la foresta, ho potuto infatti beneficiare di uno straordinario contatto profondo, continuo e intimo con il bosco e sento tutta la fortuna di sentirne incarnati i principi ecoterapeutici che ho lungamente studiato: ecco il cuore della mindwoodness, penso, mentre mi avvio a iniziare.
L’esperienza mescola momenti fortemente esperienziali ad altri più squisitamente didattici, proprio perché desidero che le allieve incarnino, vivano, si impastino con le emozioni e le intuizioni che la conduzione di gruppi in natura offre, prima di sistematizzarle in pratiche da riproporre durante le loro attività professionali, e subito mi è chiaro che ogni istante vissuto sarà di per sé didattico. Lo sarà, perché vivere nel bosco giorno e notte, acuire sensi e percezioni, condividere pranzi e cene, silenzi ed emozioni, invita il gruppo a esperire una dimensione di connessione profonda e vivificante al tempo stesso.
Quello che è accaduto però è andato ben oltre le mie aspettative, che di per sé erano ridotte o meglio aperte a integrare di momento in momento ciò che sarebbe accaduto.
Nonostante io proponga da anni questo tipo di esperienze e mi sia progressivamente ritirata dall’offrire bagni di foresta preferendo sempre più la dimensione della formazione e dell’insegnamento, ogni volta che tocco una foglia in un gruppo percepisco con ogni cellula del mio corpo il senso profondo dell’effetto butterfly.
Perché ogni cosa è profondamente relazione, vive di scambio, si nutre di incontro e da questo viene intimamente modellata e cambiata.
Cambiata come mi sento io, ogni volta che ho la grande fortuna di condurre gruppi in natura, di approfondire con persone ugualmente motivate alla ricerca continua.
Perché riconnettersi alla natura ci cambia nel profondo, ha la capacità di azzerare le costruzioni mentali, di spogliarci del superfluo in cui viviamo immersi per reimmergerci in una sorta di placenta emotiva nella quale ripartorire e ridisegnare visioni di vita ecologicamente più sostenibili e modelli di incontro e crescita basati sullo scambio e sulla possibilità di riconoscere e valorizzare le differenze anziché ricorrere a una globalizzazione che appiattisce le specificità e annulla la straordinaria biodiversità emotiva, sensoriale, cognitiva, relazionale.
Ogni volta che conduco un gruppo in natura, credo sempre sia possibile seminare, insieme, un nuovo modello esistenziale basato su valori totalmente differenti. Valori capaci di liberarci dalle catene del consumo che si radica sul nostro non sentirci abbastanza da un lato, e sul nostro essere totalmente insensibili (e allergici!) al dolore del mondo (nonché nostro) dall’altro lato. Un dolore che in realtà, se profondamente e onestamente vissuto fino in fondo, è il vero elemento alchemico capace di risollevarci da una miseria umana e relazionale che ci separa dalla natura e da noi stessi.
I tre giorni muovono intensità difficili da raccontare ma restano sulla superficie di processi che credo lavoreranno ancora a lungo in tutte noi, il ricordo delle cene condivise sotto le querce a notare come ognuna fosse capace di armonizzare gesti e pensieri come fosse parte di uno stormo che si muove all’unisono, guidato da un intelligenza più grande e capace di comprensione più elevata. Restano i sorrisi, i silenzi, i magoni e le mani strette attorno a un pugno di terra da onorare e fecondare.
E ancora restano le parole dette e quelle non dette, mentre il vento si levava deciso l’ultimo giorno, a ricordarci che sì era giunto il tempo che ognuna andasse a impollinare altri terreni con il suo sapere e soprattutto con il suo sapore.
[Buon vento, meravigliose spore, donne di selva che impastano parole e sogni in passi sempre più somiglianti al seme che custodite nel petto: così vi ricordo e così vi sogno.]