Un numero crescente di evidenze scientifiche sta mettendo in luce i benefici psico fisiologici ma anche ecologici, sociali e spirituali, che un’immersione profonda in natura è capace di offrire.
Dalla pressione arteriosa alla regolazione del tono dell’umore, passando per un maggior senso di connessione e appartenenza con evidenti ricadute benefiche su stress ansia e depressione, sono solo alcune delle evidenze che stanno letteralmente facendo esplodere la voglia di bosco, specie in questi ultimi anni contrassegnati da un’alternanza di lock-down e momenti di isolamento sociale che hanno minato la nostra salute psicofisica.
Sempre le evidenze scientifiche, parlano di una soglia minima di 5 giorni continuativi trascorsi nel bosco, a partire dalla quale gli effetti benefici decuplicherebbero in modo sostanziale: in pratica, da essere forestali quali siamo, lasciaci un pò a bagno nel nostro habitat e vedrai come rifioriremo.
Cinque giorni per riaccedere e riaccendere il nostro senso biofilico, l’innata benevolenza che ci fa sentire uniti, facenti parte, connessi a tutti i livelli e dunque allacciati, sostenuti, tenuti insieme… tutti attributi dal profondo significato terapeutico, considerato che viviamo in un’epoca traumatizzata e traumatizzante, proprio a causa dell’innaturale e repentino allontanamento dal nostro habitat: le foreste, il bordo dei torrenti, le praterie, le alture, i declivi.
Cinque giorni… e se fossero otto mesi di immersione profonda in foresta?
Sono otto mesi che abito nel cuore di una selva di castagni, interrotta a tratti da possenti querce che ospitano una quantità straordinaria di uccellini che entrano sempre più a far parte del mio quotidiano.
Otto mesi di bosco profondo, di quello che vede far buio presto, considerato che l’ho abitato prevalentemente nella stagione in cui ci rintaniamo volentieri a casa, nel calduccio (talvolta eccessivo e inquinante) delle nostre case elettrificate e coibentate.
Otto mesi di albe e tramonti, di vento impetuoso e grandine improvvisa. Otto mesi di cieli tersi, buriane, fulmini e sole alto.
Otto mesi, a guardare una stagione tendere la mano all’altra, il sole chiamare la luna, le stelle affacciarsi tra le fronde e poi i rami spogli di un inverno che a me sembra sia stato inghiottito in un sospiro di selva, tanto breve mi è parso.
Otto mesi di legna e camino, di fascine da cogliere nel bosco ripulendolo dal vecchio per far posto al nuovo (mentre la mia mente si allineava ai gesti e operava simili pulizie sottili), otto mesi di agguati al pastore (perché conoscerlo è stato un momento emozionante del mio abitare questi boschi appartati, nei quali le tradizioni si trascinano a fatica ma sono ancora presenti, come mi ricorda il pastore e la tenacia dei suoi 93 anni).
Otto mesi di: “Ma sei sicura che ce la farai lassù, con quella stradaccia, e il buio che si inghiotte la casa nella morsa dell’inverno? E se nevica? E se gela?”.
Otto mesi per incontrare l’unica cosa che davvero speravo di incontrare, ossia la contentezza che solo l’abitare la natura ti regala.
Quella capacità cioè d’essere, come mi ricorda il vocabolario Treccani, contènto1 agg. [lat. contĕntus, part. pass. di continere «contenere», quindi propr. «contenuto; pago di qualche cosa»]. – 1. Appagato, soddisfatto di quanto si fa o si riceve.
Otto mesi per imparare quindi a contenere, il sole sfacciato dei giorni di gioia e la grandine che ferisce l’anima dei giorni di dolore, incontrando a passo lento l’equanimità di chi non si risparmia e si offre a tutto, senza selezionare, edulcorare, togliere, preferire.
Otto mesi di me e di te, cara selva, per tornare a scoprire il linguaggio muto della presenza, lo spazio ampio che da solo cura perché apre e torna a far fluire.
Fluire, ecco di cosa abbiamo bisogno in una società che troppo spesso ci cristallizza in pose, abitudini e bias che non sono altro che scorciatoie di una mente che ha smesso di offrirsi e si arrocca in convinzioni che impoveriscono la realtà e la nostra possibilità di esperirla.
Otto mesi per sciogliermi in lacrime calde davanti a un’alba troppo grande perché il mio cuore la possa contenere, così come accade davanti a un dolore smisurato, per capire che non c’è differenza neanche in questo.
Il bello, il brutto, il meraviglioso, il doloroso, sono tutte emozioni che aprono, spalancano il cuore se debitamente vissute, motivo per cui in realtà in una società che anestetizza, sposta, edulcora e illude, non siamo capaci neanche di vera gioia.. perché rifiutiamo il dolore e così facendo ci trasformiamo in ombre, caricature di noi stessi, maschere.
Otto mesi per smascherarmi quindi, e comprendere nel profondo quanto io ti appartenga, selva, e tu appartenga a me, in un continuo scambio di fluidi che rendono il mio sangue e la tua linfa parenti di un unico scorrere vitale che irrompe selvaggio nelle notti di luna piena, davanti al fuoco che crepita e disegna nuove vie dei canti, nella soglia tra la veglia e il sonno.
E ora che Beltane ha promesso e riaperto la via della fertilità di smeraldo tra le fronde che acciecano nel verde sempre più vivo, ti consegno la mia contentezza, selva, che non è un sordo e illusorio esasperare gioia, ma la capacità composta, misurata, sobria e sempre meno chiacchierata e più intima e privata, di contenere te, e me con te, nella buona e nella cattiva sorte, con le piogge di novembre e il sole incantevole del maggio vivo, senza distinzioni, senza separazioni, finalmente intera, insieme, io e te.