Piove.
Di una pioggia che ha sciacquato l’anima ultimamente.
Maggio ci sta chiedendo di guardare meglio, guardare nei luoghi che spesso osserviamo frettolosamente e di soffermarci.
La pioggia chiama. Chiama dentro.
L’ho visto bene nell’ultimo bagno di foresta, quello all’Eremo di San Bartolomeo che ben presto è diventato l’eremo del mio cuore, del nostro cuore.
La pioggia spinge dentro, osa l’incontro con l’ombra, la zona liminale, il confine taciuto tra la me meravigliosa e quella miserabile.
Sfonda i veli, la pioggia, si accorge del mio minotauro nascosto nel petto, lo chiama, lo invoca, celebra la mia pochezza e insieme, la grandezza nascosta in ogni risalita.
L’ombra, il mistero, ciò che taccio e non vedo, la tasca in cui stento a infilare la mia mano per paura di trovare le mie stesse briciole, cocci rotti di storie, antenati e radici dolenti, vite vissute ai margini, escluse, rigettate, impaurite.
Mi mescola l’intestino questa pioggia, fruga senza rispetto, apre i calderoni, fa ribollire l’anima nel suo disarmante richiamarmi qui, ora, con tutto il groviglio di radici e funghi che mi abita dentro.
E’ implacabile la pioggia, mescola lacrime e sudore, rende invisibili i fluidi del cuore, solca le guance ma anche i mari della memoria, le tempeste solcate e quelle deglutite, dentro cui sono affogati speranze e progetti, sogni e desideri.
E’ terapeutica la pioggia, e con lei il bosco tutto, capace di amplificare e sostenere il mio viaggio dentro, alla scoperta dei volti perduti, degli abbracci mancati, delle parole mai dette che hanno lasciato un tonfo nel cuore, lo stesso che a volte sento quando mi sveglio ma ancora sveglia non sono… in quella zona liminale tra il conscio e l’inconscio, il giorno e la notte, la luce e l’ombra.
Ecco perché ha senso costellare in un bosco: perché abbiamo bisogno di fare bosco, cantare il bosco, esserlo con tutta la forza che le nostre radici sprigionano e anche con tutta la debolezza che sperimentano.
Ma cosa significa costellare e cosa intendeva Bert Hellinger con le costellazioni familiari sistemiche?
Costellare per me significa farsi bosco.
Significa silenziare la mente, arrendersi all’intreccio senza fine di storie e vissuti, appartenere al campo, al terreno, al singolo impulso che muove la radice e informa la foglia.
Costellare significa mettersi al servizio del progetto di vita che abita ovunque e che si esprime in un sasso come in un fringuello, nell’acqua che canta e nella rosa che sboccia, smettendo di credere che “io prima di te”, “tu davanti a me”.
Costellare significa ritrovare il proprio posto nel mondo, partecipare, essere, il mondo intero, liberandosi da condizionamenti e dagli schemi comportamentali limitanti dei nostri antenati, imparando a lasciare andare, aprendoci al perdono e alla possibilità.
Bert Hellinger, con le sue Costellazioni familiari, aveva intuito che tutto partecipa a un sistema di relazioni, a un infinito scambio di informazioni che non conosce tempo. Per questo motivo, praticarle permette di accedere al “Campo Familiare Informato” che, al di là del tempo, continua a mantenere intatti tutti gli avvenimenti accaduti in una determinata famiglia. Alcuni eventi restano “registrati” in questo Campo Quantico incorruttibile alla verità nascosta, rielaborata o modellata.
Lì, in quel grumo di radici e storie, finiscono con il rimanere imprigionati desideri e bisogni ma soprattutto condizionamenti che impedirebbero a ognuno di noi di vivere pienamente la nostra vita.
La vita di ognuno, sosteneva Hellinger, è condizionata da destini e sentimenti che non sono veramente propri e personali; anche malattie gravi, il desiderio di morte e problemi sul lavoro, possono essere dovuti a irretimenti del sistema-famiglia e possono essere portati alla luce attraverso le costellazioni familiari.
Fare esperienza di questa pratica in un bosco, ci offre l’occasione per sperimentare a un livello di profondità ulteriore e successivo, il potere “imparentante” che la Natura esercita su di noi, perché siamo Natura e tornare ad abitarla profondamente, ci restituisce senso e scopo e ci sostiene nel processo di diventare chi siamo destinati ad essere, sciogliendo gli irretimenti, liberando le nostre radici per imparare a nutrirci e a nutrire, ad offrirci e a ricevere in un equilibrato e continuo scambio di informazioni che anziché ristagnare riprendono a fluire.
Ma non solo: fare una costellazione selvatica significa anche integrare il clima, il paesaggio, la temperatura, la qualità della giornata nella nostra pratica.
Significa imparare a non escludere niente, a non dare priorità, a non separare, a rimanere aperti e aperte al processo, intuendo che noi stess* siamo processo.
Piove e non smette di farlo: accolgo l’invito, mi lascio dilavare.